II domenica di Quaresima

 

Parola di Dio
Gen 12,1-4a Vocazione di Abramo, padre del popolo di Dio.
Sal 32 Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
2 Tm 1,8b-10 Dio ci chiama e ci illumina.
Canto al Vangelo (Mc 9,7) Dalla nube luminosa, si udì la voce del Padre: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”.
Mt 17,1-9 Il suo volto brillò come il sole.

«Vattene»
La storia di creazione e de-creazione racchiusa nei primi undici capitoli della Genesi è, al c. 12, improvvisamente rigenerata attraverso la vocazione di Abramo. Il Signore Dio sceglie e chiama Abramo, con tutta la sua famiglia, per costituirlo segno di benedizione per tutti i popoli della terra. Il testo biblico sembra insistere molto sull’iniziativa di Dio, che spinge il patriarca nella fede a muoversi con decisione – «Vattene» – lasciando la casa paterna per avventurarsi in una terra sconosciuta, ma che Abramo sarà in grado di riconoscere. In realtà, come precisano gli ultimi versetti del capitolo precedente, Abramo si sta già dirigendo verso la terra che Dio indicherà: «Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan» (11,31). Tuttavia, dopo la morte del padre (11,32), Abramo può finalmente ascoltare l’indicazione di Dio non solo come una semplice conferma del cammino già intrapreso, bensì come una dilatazione dei suoi progetti che, improvvisamente, acquistano lo spessore di una chiamata a cui è impossibile rinunciare. Si capisce perché l’esegesi ebraica ha sempre inteso la forma verbale «vattene» come un imperativo volto a dirigere il cammino di Abramo verso un incremento di consapevolezza del proprio desiderio profondo: «va’ verso te stesso».

Essere (una) benedizione
Abramo parte senza padre e senza fratello – entrambi appena morti – e con una moglie – Sara – sterile. In un simile contesto di morte e di sterilità, la voce perentoria del Signore Dio potrebbe anche assumere un tono beffardo se non fosse accompagnata da una dolce promessa di fecondità: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione» (Gen 12,2). Per ben cinque volte, in appena due versetti, il testo fa ricorso al campo semantico della benedizione, per mettere in evidenza che ogni cammino di morte può essere riscattato solo da colui che ha il potere sulla vita e sulla morte. La speranza contenuta nel testo della chiamata di Abramo appare ancora più evidente se pensiamo che questo racconto è stato redatto, con tutta probabilità, nel tempo dell’esilio in Babilonia, un momento di prova in cui la promessa di Dio sembra essere venuta meno e la numerosa discendenza promessa ad Abramo un lontano ricordo, per non dire una illusione. La risposta del nostro padre nella fede diventa l’accoglienza della prospettiva di una vita che può sempre ricominciare, anche nella desolazione del più grande deserto, affinché la vita del mondo possa essere e dirsi benedetta.

«Sei giorni dopo»
Anche il racconto della Trasfigurazione si colloca nel quadro del cammino dell’uomo verso Dio, e del mistero della morte che ha bisogno di essere attraversato da tutta la luce di Dio per poter accedere a una eternità di vita. Il racconto della Trasfigurazione si apre con una nota temporale tutt’altro che superflua o priva di significato: «sei giorni dopo». L’espressione potrebbe alludere all’annuncio di passione che Gesù ha rivolto ai suoi discepoli subito dopo la confessione di Pietro a Cesarèa di Filippo (cf. 16,21). Ma ci potrebbe essere anche un riferimento al «settimo giorno», quello in cui Dio porta a compimento i sei giorni della creazione, «creando» il tempo del riposo, cioè il godimento della relazione. Nella concezione biblica, il numero è un simbolo a cui si ricorre quando si vuole mettere in luce la natura segreta delle cose, rivelandone i significati più reconditi. Se il numero sei è cifra del livello umano, il sette rappresenta piuttosto il livello divino. La precisazione di tempo, dunque, sta a indicare l’irruzione di Dio dentro la tenda della nostra umanità. Per questo tutti i vangeli, con sfumature diverse, affermano che le vesti di Gesù «divennero candide come la luce» (Mt 17,2).

In disparte
Il Maestro Gesù decide di salire su un «alto monte», per dedicarsi a una preghiera più raccolta e profonda, insieme ad alcuni discepoli scelti, «Pietro, Giacomo e Giovanni» (17,1). In Galilea, duemila anni fa come oggi, i posti per raccogliersi in preghiera sono offerti in abbondanza dalla natura ospitale e verdeggiante; non c’è bisogno di grandi spostamenti o avventurose arrampicate per fare silenzio e ritrovarsi a tu per tu con l’invisibile presenza di Dio. L’indicazione geografica del brano evangelico colloca l’evento della Trasfigurazione in uno scenario astorico e atemporale per rendere l’evento storico significativo per ogni generazione cristiana. Questa comprensione universale del mistero è stata ben colta dalla tradizione iconografica, che ha scelto proprio la scena della Trasfigurazione come modello iniziatico e paradigmatico di ogni altra icona cristiana.

Il volto
Un’ulteriore conferma che la Trasfigurazione – all’interno dell’itinerario quaresimale – vada colta come un’indicazione di vita è rappresentata dall’importanza accordata al «volto» di Gesù che brilla «come il sole». Secondo la tradizione biblica, Dio non ha un solo volto, ma ne possiede diversi, che esibisce all’uomo a seconda delle circostanze in cui esso si trova, per il maggior bene del suo cammino di vita. Sul monte Gesù rivela il volto di Dio, manifestandosi ai discepoli come il Figlio amato, nel quale è possibile riporre fiducia e ascolto. Ma rivela anche il volto dell’uomo, che è destinato a essere rigettato e deve attraversare la sofferenza, fino a rimanere «solo» (Mt 17,8). Sul monte si manifesta, dunque, il mistero della divino-umanità, che nella teologia dell’oriente cristiano non è altro che la conseguenza del mistero pasquale per la nostra umanità.

La risurrezione
Il commento conclusivo, o meglio la raccomandazione, che Gesù stesso rivolge ai suoi discepoli scendendo dal monte, non è affatto accidentale: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti» (Mt 17,9). Con queste parole l’evangelista pone un collegamento forte e diretto tra la Trasfigurazione e la Pasqua di Cristo, cioè tra la vittoria di Dio sul peccato e sulla morte e la trasformazione della passione e morte in un inedito cammino di speranza e di vita.

Tràsfigurati
Recuperare un’idea grata e felice di Dio è urgente e necessario per avere la forza di obbedire a Cristo, fidarsi dei suoi insegnamenti e mettere la nostra vita dietro ai suoi passi, come la voce del Padre invita a fare: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo»  (Mt 17,5). L’esperienza di bellezza che i discepoli vivono sul monte ci ricorda che soltanto un’esperienza grata di Dio può riaccendere il meccanismo della nostra conversione, e riattivare il dinamismo di una sequela capace di affrontare il perenne scandalo della croce. Poiché a noi cristiani «è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità» una «vocazione santa»: la «grazia» (2Tm 1,9) di poter soffrire — «con la forza di Dio» — «per il vangelo» (1,8). Cioè di poter accogliere nella nostra vita il mistero della croce, partecipando all’opera del nostro Maestro e Signore, il quale «ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita» (1,10).