Quando nel 1945 o, forse, nel settembre del ‘44, Benigno Zaccagnini gli propose di lavorare nel partito della Democrazia Cristiana, Alberto rispose “che non aveva obiezioni di principio, che ci avrebbe riflettuto, ma che si sentiva già molto impegnato in un’azione più concreta e immediata sul piano della carità”. Ci pensò alcuni giorni; probabilmente ne parlò col vescovo, come era suo stile. Infine accettò. Non avvertiva fratture tra l’attività nell’Azione Cattolica e l’impegno politico a cui veniva chiamato, perché credeva che solo attraverso l’impegno politico potessero incarnarsi nella prassi e informare la società che si andava ricostruendo quegli ideali di solidarietà e di giustizia che la Chiesa predicava e che lui ben conosceva dalla lettura delle encicliche pontificie.
Alberto inizia il suo lavoro nel partito in un momento difficile; all’iniziale collaborazione con le sinistre si era sostituito un duro scontro ideologico. La lotta fra i partiti era assai accesa; la contrapposizione delle idee radicale spesso degenerava in risse vere e proprie: si abbattevano i “pulpiti” degli oratori, si tagliavano i fili degli altoparlanti… Lo scontro frontale avveniva inevitabilmente tra i due partiti di massa, la Dc e il Pci. Anche in questa atmosfera, così poco favorevole al dialogo, Alberto sapeva trovare l’atteggiamento giusto: appassionato assertore dei principi ispiratori del suo partito, si teneva però lontano da ogni faziosità. Gli altri compagni di partito subivano il fascino della lotta, quasi che essa garantisse la solidità dei principi. Alberto attribuiva, invece, massimo valore ai principi e considerava spiacevoli incidenti le lotte che ne conseguivano. “Al ritorno dai comizi – così testimonia un amico – ci si scambiava opinioni e esperienze. Ciò che più colpiva nell’atteggiamento di Alberto era la serenità con cui riferiva episodi di grave faziosità degli avversari, i quali erano giunti anche a vie di fatto, tentando di impedirgli di parlare”.
Fare comizi non era un “mestiere” facile. Si doveva procedere tra fischi, urla, provocazioni di ogni sorta. Spesso si finiva per venire alle mani. Il fiducioso ottimismo di Alberto, espressione di un atteggiamento positivo di fronte agli uomini e alle cose, intuiva sempre la strada giusta per riuscire a comunicare. In un comizio tenuto a Spadarolo, gli “avversari” rovesciarono la tribuna preparata per l’oratore; Alberto non si scompose, con calma rimise le cose a posto e riuscì a farsi ascoltare. A Sant’Ermete, durante un altro comizio, riuscì a frenare il chiasso di un gruppo di scalmanati e terminare il suo discorso.
La sua parola era valorizzata dalla vita, che mai aveva deflettuto dai quei principi che egli divulgava fra il popolo. Per questo non aveva nemici, neppure in politica. La politica per lui era amore, era l’estrema conseguenza della carità sociale e strumento di verità. Egli metteva in pratica ciò che, nel lontano 1927, parlando ai Fucini, Pio XI aveva detto: “Il campo politico è il campo di una carità più vasta, la carità politica”. La vita di Alberto, la sua testimonianza, gridavano più forte di ciò che diceva con le parole.
Anche le riunioni interne della Dc non erano facili: c’era un’acuta tensione fra gli anziani, provenienti dal vecchio Partito Popolare e i giovani, provenienti dalle associazioni cattoliche. Ancora una volta l’autorevolezza morale di Alberto diventava un insostituibile elemento di equilibrio.
Giovanni Ardissone, durante un corso di Esercizi spirituali della Società Operaia, ebbe modo di parlare con Alberto di questo “mondo nuovo” a cui bisognava andare incontro e che richiedeva generosità, donazione, sacrificio, rinuncia, ossia “una gara di virtù”. “Era una gioia scambiare con Marvelli questi grandi ideali, per sentire dentro di noi l’entusiasmo di affrontare ogni fatica e disagio, perché le parole di Gesù prendessero forma in noi con una donazione totale di servizio di professione e famiglia, ossia di laici, in un mondo laico da consacrare”. Il nuovo impegno politico – nel frattempo era stato nominato anche membro del Comitato provinciale Dc – lo portò a rallentare il suo lavoro in Azione Cattolica e a lasciare la presidenza della associazione della sua parrocchia.
Il suo gesto non venne compreso da tutti.
“Egli intervenne – ci racconta Masinelli – e precisò che agiva in quella maniera perché pensava che erano i tempi in cui i cattolici dovevano impegnarsi uniti; che in quel momento lavorare nella Dc era il modo migliore di esercitare il suo apostolato e aggiungeva che quando si fosse accorto che lavorare nella Dc non era più utile per il mondo cattolico, avrebbe lasciato la politica”. Così Alberto ci dà la chiave di lettura del suo impegno nel partito: esercitare un apostolato.
“Sempre sereno e tranquillo, sempre equilibrato e imparziale, sempre pronto ad ascoltare le tesi altrui prima di esporre la propria, sempre attento ed incoraggiante, qualunque fosse l’interlocutore, egli partecipava a tutte le riunioni di partito apportando un contributo concreto di iniziativa, di suggerimenti e spesso anche di spunti polemici. Ricordo in particolare il suo interesse per i problemi ai quali egli si riteneva moralmente impegnato: innanzitutto i problemi della ricostruzione della città, poi i problemi della cultura, i problemi del lavoro e, non ultimi, i problemi dell’assistenza. Per tutti questi problemi egli aveva sempre la proposta di una soluzione incisiva e chiara, suggestiva nel suo significato di ordine morale, ma sempre congeniale al suo pensiero. Era nemico della retorica e delle frasi fatte, anche se consacrate dall’uso comune. Di tutte le cose voleva andare alla radice, di tutte le situazioni cercava il significato esatto senza lasciarsi frastornare dal chiasso delle montature propagandistiche”.