Chiesa comunità di condivisione
ACLi di Rimini
Per preparare l’incontro nazionale di spiritualità del prossimo 6-8 novembre a Camaldoli (Ar)
“Lo scandalo delle disuguaglianze e le esigenze della giustizia”
proponiamo delle riflessioni sui 5 temi motivo di riflessione dell’incontro a Camaldoli.
La prima riflessione è di padre Elio Dalla Zuanna, incaricato nazionale Cei per la formazione spirituale nelle Acli.
La chiesa come comunità di condivisione
La novità cristiana non consiste nel credere che Dio esista. Ma, come ci è dato di leggere nella prima lettera di Giovanni, che «Dio è amore». Così fin dai primi secoli del cristianesimo veniva affermato:«Dio è uno ma non è solo», abbiamo così imparato che nella vita divina vi è pluralità, alterità, reciprocità, “non solo dono di Sé ma dono in Sé”, come indica la tradizione biblica e la fede della chiesa. Le relazioni d’amore reciproco sono costitutive dell’essere stesso del Dio Uno e Unico.
Visto che la creatura umana è plasma ad immagine e somiglianza di Dio, come non comprendere l’importanza di vivere, nei vincoli umani e in tutti gli aspetti della società, un tipo di amore e di relazioni analoghi a quelli che esistono in Dio Trinità. Ovviamente non è sufficiente un generico “volersi bene”, per dire di vivere insieme un’esperienza di Chiesa presente nella storia, come neppure trovare una sorta di ispirazione facile, simile a una sorta di socialismo ingenuo con cui voler costruire una civiltà cristianamente ispirata. Ma qualcosa di potenzialmente innato è presente in tutti gli esseri umani, nella misura in cui le persone vivono non soltanto per sé stesse ma cercando anche il bene degli altri, cresce già una società più umana, più equa, più felice.
Oggi la riflessione biblico e teologica ha assunto, come modello della chiesa e sulla chiesa come immagine vivente, la vita trinitaria. La Trinità come stile di vita e forma di pensiero, la via per attuare concretamente la consegna lasciata dal Maestro: «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv. 15,17). Ha qui la radice il nostro essere chiesa, la dimensione visibile mediante cui accogliere la convocazione del popolo di Dio.
Chi volesse sapere cosa significa vivere fraternamente, come diventare persone sapienti, libere e felici grazie a una vita ispirata allo stile della Trinità, dovrebbe poter guardare come si vive nella chiesa, e il tentativo di essere famiglia di Dio. È questa la più forte testimonianza di Dio al mondo che i cristiani possono offrire, quanti non condividono e non credono potranno trovare altre spiegazioni, ma qualunque spiegazione si dia, tutti possiamo riconoscere che se è la fraternità a regolare la vita, di certo l’esistenza umana diventa più bella e più vivibile.
Un verso di Pablo Neruda ci porta a comprendere una profonda verità, innata sia per i credenti sia per quanti non lo sono: «L’amore ricostruisce un cristallo rotto nel fondo dell’essere».
In effetti l’esperienza ci fa incontrare persone che pur non si riconoscendosi come cristiane o non vicine alla nostra tradizione, eppure esse pure sanno dare spinte alla storia dal sapore “trinitario”. Appare miope l’atteggiamento espresso, in questi giorni, che siano solo persone cristiane, quelle possibili da accogliere tra la moltitudine di profughi disperati e oppressi, in nome della salvaguardia delle radici cristiane.
Pretendere di appartenere a una chiesa dallo stile trinitario, come il concilio ci ha insegnato, con la tentazione di arrogarci il monopolio dei rapporti fondati sulla condivisione e la comunione, sarebbe ridicolo, quando nella pratica abbiamo tanto da imparare, anche in questo campo, da altri, da quanti riteniamo diversi.
Il tempo che stiamo vivendo domanda invece, un radicamento più consapevole dei nostri rapporti, fondati sul modello di chiesa Trinità, una visione che offre non solo idee e motivazioni per rendere la vita umana migliore, ma rende manifesta la presenza di Dio. Acquista oggi tutto il suo realismo, l’espressione di s. Agostino «Tu vedi la Trinità, se vedi la carità».
“Lo scandalo delle disuguaglianze e le esigenze della giustizia”.
La misericordia come principio di uguaglianza
Quando parla della misericordia di Dio, la Bibbia ci racconta della sue viscere che si smuovono di fronte agli uomini che sono oppressi dalla fatica del vivere e dalle ingiustizie di altri uomini.
La misericordia, prima di tutto, è un sentire profondo verso il fratello che si trova in una situazione in cui la sua dignità di uomo è messa in discussione e vive una situazione di non libertà che gli impedisce di realizzare la pienezza della propria vita.
La misericordia sente il grido del povero che chiede aiuto e non si volta dall’altra parte.
La misericordia si fa carico delle povertà del fratello che grida, a volte anche in silenzio, la propria sofferenza.
La misericordia è sentire che il prossimo non è altro da me: se soffre sono io che soffro con lui, se gioisce sono io che gioisco con lui.
La misericordia è essere consapevole che se il fratello muore, muoio anch’io, perché siamo una cosa sola davanti al Signore misericordioso.
La misericordia che il Signore pratica verso gli uomini ha come frutto il rimettere tutti sullo stesso piano, amati ciascuno secondo le proprie necessità, nella pienezza della propria vita, per poter vivere nella libertà il dono della vita ricevuto dal Signore.
Per tutti è una gioia essere toccati dalla misericordia del Signore, perché egli dà più di quanto speriamo, fa traboccare la vita là dove viene meno, fa ritrovare il fratello che si era smarrito nelle fatiche della vita, così che insieme si possa continuare a camminare nella fraternità, nella giustizia e in pace.
«Davide rispose a Gad: “Mi trovo in grande angustia! Cadiamo pure in mano del Signore, perché la sua misericordia è grande, ma che io non cada nelle mani degli uomini» (2Sam 24,14).
La misericordia di Dio è sempre da preferire, perché è grande e guarisce ogni ferita.
«Ecco ciò che dice il Signore degli eserciti: Praticate una giustizia vera: abbiate amore e misericordia ciascuno verso il suo prossimo» (Zac 7,9). E’ contemplando la misericordia del Signore che l’uomo diventa capace di misericordia verso il fratello nel bisogno.
E’ la misericordia di Dio che ci è stata rivelata nel mistero pasquale e che ci rende tutti uguali davanti al Signore, tutti bisognosi della sua salvezza e tutti fratelli di pari dignità, perché tutti salvati dal nostro peccato.
L’ingiustizia, che segna le relazioni tra di noi e che crea disuguaglianza, ci interpella affinché possiamo, con l’aiuto del Signore misericordioso, ristabilire nella giustizia l’uguaglianza che dà a ciascuno secondo il suo bisogno, riconoscendo le diverse necessità di ciascuno per poter vivere una vita degna di tale nome.
La misericordia riconosce la specificità di ogni persona e ne promuove la vita secondo la sua originalità, creando così la fraternità che accoglie ciascuno per quello che è e per il contributo che può dare alla vita comune, senza invidie e gelosie, ma con gioia e partecipazione.
La misericordia diventa così fondamento della pace, che per la rivelazione biblica è quella condizione in cui ciascuno riceve a sufficienza per la propria vita e non ha quindi la necessità di avere di più e neanche vivere l’ingiustizia perché ha di meno di quello che necessita.
Il nuovo mondo di papa Francesco
Il nuovo mondo di papa Francesco in realtà non è affatto nuovo: è il mondo di cui parla il Vangelo e che da 2000 anni viene annunciato presso tutti i popoli. Difficile dire che il messaggio di papa Francesco innovi in maniera sostanziale rispetto a quanto Gesù ha proclamato e da sempre la Chiesa ribadisce: perché allora esso risuona con tanta novità?
Certamente è nuovo il tono, lo stile. Quello di papa Francesco è uno stile diretto, immediato, che sa parlare al cuore delle persone anche più semplici. Non è mai banale, ma al tempo stesso non concede nulla alla retorica. Bisogna riconoscere che, a volte, il linguaggio di certi rappresentanti della Chiesa cattolica suona altisonante, cattedratico; discorsi in sé corretti ma che appaiono lontani dai veri problemi della gente. Nulla di simile in papa Francesco: il suo parlare va dritto al cuore delle cose, interpellando senza sconti e senza fronzoli i nodi centrali del vivere.
Ma non è solo una questione di linguaggio. Papa Francesco parla alla gente perché sa stare in mezzo alla gente, come uno tra i molti. E’ continuo il suo richiamo affinché i pastori abbiano “l’odore delle pecore”, sappiano cioè camminare al passo con le persone senza mantenersi lontani e distaccati, quasi in una torre d’avorio per proteggersi dalle contaminazioni. “Meglio una Chiesa ammaccata che una Chiesa arroccata”: quando la comunità cristiana “esce” per incontrare le periferie – non solo urbane, ma anzitutto antropologiche – corre il pericolo di inciampare, di sporcarsi, ma questo è un rischio assai meno grave rispetto al chiudersi a riccio nelle proprie idee, tradizioni e abitudini.
Ma “uscire verso le periferie” significa incontrare i poveri, gli emarginati, i sofferenti. E’ qui che si radica l’opzione preferenziale per i poveri. Con insistenza papa Francesco ci sta insegnando che il cristiano, che la Chiesa non può limitarsi a “operare per” i poveri: questo è il paternalismo di chi, per condiscendenza, dà qualcosa del proprio superfluo a chi ha poco o niente. L’episodio dell’obolo della vedova è tra quelli che meglio fotografano tale dinamica. Dei ricchi versano parecchi denari nel tesoro del tempio, mentre la vedova fa cadere dalle proprie mani solo qualche spicciolo: cosa quasi trascurabile per la contabilità del tempio, ma eccezionale agli occhi di Dio. Gli altri infatti hanno dato del loro superfluo, lei quanto aveva per vivere.
L’opzione preferenziale per i poveri va esattamente in questa direzione. Non va compresa come categoria sociologica, ma anzitutto teologica: il povero è colui al quale per primo è annunciata la buona novella del regno. Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso si fece povero (cfr. 2 Cor 8,9). Tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri (Evangelii Gaudium, n. 197). Non bastano le pur pregevoli azioni di tante istituzioni caritative; occorre qualcosa di più radicale, occorre che la Chiesa riscopra ogni giorno, anche a costo di lottare con le proprie incrostazioni, l’importanza del proprio essere povera. In caso contrario, sarà il Vangelo a essere diventato incomprensibile.
“Ma tutto ciò è anacronistico, irrealizzabile”, dirà qualcuno. Il mondo va in una direzione ben diversa, va nella direzione dell’accumulo e della sopraffazione reciproca, dirà qualcun altro. E appunto questo è l’ammonimento che percorre le pagine della recente enciclica Laudato si’: la “globalizzazione dell’indifferenza”, cui si intreccia il predominio della finanza e delle logiche spregiudicate del mercato, sta causando danni forse irreparabili nei rapporti umani così come nella progressiva distruzione del creato. Occorre una logica nuova e con essa modelli di sviluppo compatibili con la dignità della persona (di ogni persona, non solo dei benestanti) e la salvaguardia del creato. E’ la responsabilità che il presente storico ci consegna. Accogliere tale responsabilità è il compito di ciascuno di noi.
Lodare Dio, lodare il creato[1]
Davanti ad un tramonto, sulla vetta di una montagna, immersi nell’azzurro del mare, nella gioia, ma anche nei momenti difficili, nel dolore e nella sofferenza, capita di sentir pulsare in noi, spesso in maniera inconsapevole ed incontrollata, la forza della vita: un che di immutabile ed invincibile ma nello stesso tempo anche molto fragile. Qualcosa che ci travalica, che è, che è stato e continuerà ad esserci. Un sentire di appartenere ad un qualcosa/qualcuno che va al di là di un tempo e di uno spazio: un senso di eternità ed infinito. In quei momenti siamo capaci di sentirci parte di un mondo bello e buono che ci accoglie e nutre e che ci fa vivere e respirare, al di là di tutto. Momenti della vita in cui percepiamo la consapevolezza di essere parte di un progetto, capiamo di avere un significato e sperimentiamo che è possibile essere in pace con il mondo, con la nostra coscienza e con la vita.
Questo incanto davanti la bellezza e l’armonia, che affiora in noi davanti alla meraviglia del creato di cui sentiamo di far parte, racchiude e nasconde in sé un’impronta divina. È il segno vivo di una presenza eterna; l’ascolto di una voce paradossale e silenziosa di un Dio Padre creatore che si presenta per ciò che è, e che è sempre stato: un Dio che genera per amore e con amore. Un Dio che ha fatto i cieli e la terra e li ha riempiti di vita in abbondanza, creando l’uomo a sua immagine, dandogli il compito di custodire e coltivare la sua creazione.
Un Dio che per amore si è fatto uomo, che ci parla, che guarda attraverso i nostri occhi, che si fa vicino attraverso i nostri sensi, che si rende palpabile e visibile. Un Dio che com/partecipa, che è qui in questo mondo, con me, in questo tempo, in questo luogo e con me vive e sente. «Vivere nel Tuo mondo è una cosa bella e buona, malgrado tutto quel che ci facciamo reciprocamente noi uomini», scriveva il 15 settembre del 1942 Etty Hillesum. E ancora, l’8 ottobre: «Eppure arrivo sempre alla medesima conclusione: la vita è bella. E credo in Dio. E voglio stare proprio in mezzo ai cosiddetti «orrori» e dire ugualmente che la vita è bella»[2].
Questo il nostro impegno, tutto umano, il nostro compito, ieri come oggi: vivere cercando sempre, anche in mezzo alle difficoltà ed alle brutture, la bellezza e l’amore di Dio e della sua creazione. Per il cristiano si tratta di una scelta libera, consapevole e quotidiana di fede, un impegno di responsabilità personale e comunitaria: essere la sua Parola che si fa carne nella storia. Non ci viene chiesto di essere eroi ma santi: uomini e donne che si affidano, consapevoli di quanto la tentazione di dominio sia forte in noi, ad un Padre creatore e pieno di tenerezza che nell’armonia della creazione ha dato senso ad ogni forma di vita.
Un impegno ed una responsabilità a cui anche come Acli non dovremmo mai sottrarci. Il compito di custodi a cui Dio ci ha chiamati dovrebbe sempre riportarci con umiltà e pazienza ai nostri compiti per l’oggi ma anche per il domani, per un bene comune che è di tutti! Amare la terra, amare gli uomini, amare la vita con la stessa forza generativa, con la stessa passione, con la medesima volontà che Dio ci ha indicato e che noi siamo chiamati a vivere nella nostra esperienza quotidiana. Anche la consapevolezza che la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato sono questioni intimamente interconnesse ci può aiutare nel lavorare sempre affinché logiche di fraternità si diffondano. Il nostro impegno per la giustizia sociale, per il riconoscimento della dignità di tutti in un mondo meno vincolato da logiche di profitto e sopraffazione, per una distribuzione equa dei beni della terra, devono avere come riferimento Cristo: ideale e testimone di armonia, di giustizia, di fraternità e di pace che davanti agli esempi dei potenti della terra così si esprimeva: «I governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sia così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sia vostro servitore» (Mt 20,25-26).