È appena uscito il nuovo libro di Nicola Cacace “Cambiare marcia per creare lavoro. Più servizi, più qualità, meno ore” (Altrimedia Edizioni, Matera, pagg. 142) con prefazione di Giuseppe Bianchi, presidente dell’Isril, e postfazione di Pier Paolo Baretta, sottosegretario al Ministero dell’economia e finanza.
L’autore, ingegnere-scrittore napoletano, esperto di scenari economici e previsioni tecnologiche, nel suo nuovo lavoro ha rimesso al centro la questione del rapporto tra sviluppo, occupazione e politiche degli orari e – con la precisione e il rigore di un tecnologo e manager prestato all’economia – ci ricorda come si debba affrontare l’occupazione oggi: quali i contesti, i presupposti, le condizioni, i settori interessati.
Cacace sottolinea come in Italia il tasso di occupazione – occupati rispetto alla popolazione in età da lavoro – sia inferiore di 10 punti rispetto al tasso di occupazione europeo, che su una popolazione in età da lavoro di 40 milioni, significano quattro milioni di posti lavoro che mancano all’Italia per essere in media con l’Europa.
«I motivi di questi ritardi – dice – sono molti, e tra i principali vanno menzionati: a) un’incapacità culturale italiana di guardare lontano; b) un veloce invecchiamento della popolazione; c) una crescita record delle diseguaglianze sociali; d) l’assenza di un dibattito culturale, sindacale e politico sui servizi e quindi d’interventi mirati in questo settore; e) l’assenza di politiche di redistribuzione del lavoro, anche da parte delle organizzazioni sindacali».
L’occupazione è oggi la priorità e l’incubo dei governi dei paesi industriali, alle prese con la carenza di lavoro. “Tutti accusano la crisi economica internazionale – dice l’autore – ma la ragione è un’altra. La difficoltà di creare il lavoro che serve dipende da altri motivi, tra cui i due principali sono l’emersione di una nuova realtà economica post-industriale (la cosiddetta terza ondata, di cui ha parlato Alvin Toffler) che non comprendiamo appieno nei suoi nuovi paradigmi di problemi e opportunità e l’arresto di un processo storico di riduzione degli orari di lavoro che aveva consentito, nella seconda metà del Novecento, la quasi piena occupazione nei paesi industriali. All’inizio del ‘900 si lavoravano 3000 ore/anno. All’inizio del 2000 si lavoravano (media Ocse) 1800 ore/anno con minimi di 1431 in Germania, 1495 in Francia, 1393 in Olanda, e 1819 in Italia e 2095 in Grecia. Orari più lunghi nei paesi europei meridionali spiegano in parte il divario abissale tra i tassi di occupazione coi paesi europei nordici, quasi 15 punti di differenza, che significa che a noi mancano più di 5 milioni di occupati per essere tedeschi».
Ma le difficoltà occupazionali crescono in quei paesi che non prendono consapevolezza della rivoluzione tecnologica profonda e veloce che sta investendo il mondo e dei provvedimenti necessari che riguardano le risorse umane e le innovazioni tecniche e sociali.
Dice l’autore: «Con bassi tassi di crescita della produzione, aggravati anche da politiche europee di austerità suicide, la produttività, che con la rivoluzione elettronica taglia più posti di lavoro più di quanti ne crei, è più alta della crescita e riduce occupazione, a parità di orari. Si aggiunga il fatto che la deindustrializzazione dei paesi industriali è un fenomeno inarrestabile – il peso del manifatturiero su Pil e occupazione è dimezzato al 15% in 30 anni – e quindi solo crescendo nei servizi e facendo speciali politiche pro labour è possibile difendere i livelli occupazionali».
Ma l’Italia soffre anche di malesseri specifici e peculiari propri.
È successo in Italia che la deindustrializzazione in corso da decenni in tutti i paesi industriali non è stata compensata da nuovo sviluppo, dai servizi e da politiche specifiche di redistribuzione del lavoro.
Inoltre per l’autore l’aumento di occupazione può venire solo dal terziario. Gli attuali cinque milioni di occupati nell’agricoltura e nell’industria manifatturiera potranno al massimo essere difesi, ma non aumenteranno.
Il comparto del turismo, ad esempio in Francia e Spagna pesa più del 10% di Pil e occupazione, mentre in Italia pesa poco più dell’8%, che significa almeno 400 mila posti lavoro in meno, recuperabili con una politica del turismo intelligente. «Discorso analogo vale per la cultura, per l’informatica e le comunicazioni, per i trasporti, per i servizi dedicati alle persone, ma soprattutto per i servizi alle imprese, oltre alle attività d’intrattenimento, tutti settori in cui l’export di servizi cresce continuamente e in cui finanziamo lavoro straniero, in quanto sono settori con bilancia con l’estero passiva».
Per Cacace «Il grande buco di occupazione italiano può essere risolto solo con un forte rilancio dei servizi. Che non significa abbandonare la manifattura ai suoi destini, ma fare politiche industriali intelligenti per mantenere in vita le imprese manifatturiere con futuro, rilanciare le più avanzate, cercando di rallentare il calo occupazionale manifatturiero complessivo che continuerà, come continua in tutti i paesi industriali da quarant’anni. Il che significa abbandonare una linea suicida di politiche economiche, macro e micro, da cui sono completamente assenti tutti i settori dei servizi, che oggi occupano il 68% dell’occupazione rispetto al 75% degli altri paesi. E sette punti in meno di occupati nei servizi, su una popolazione in età da lavoro di quaranta milioni, sono quei tre milioni di posti lavoro che possiamo creare in una decina d’anni con un progetto di terziario all’altezza del potenziale italiano. Potenziale di bellezza, cultura, iniziativa, idoneo a un forte sviluppo di servizi avanzati».
In teoria servirebbero 3,7 milioni di nuovi posti lavoro per avere un tasso di occupazione in media europea del 65%, e per avere un’idea del divario quantitativo con l’EU28, all’Italia mancano 3 milioni di occupati per essere in media “europea” e 5 milioni per essere in media “tedesca” (tasso di occupazione al 77,1%).
Ma in Germania si sono aboliti gli straordinari sostituendoli con la banca delle ore, mentre l’Italia resta l’unico paese europeo che fa pagare l’ora di straordinario meno dell’ora di lavoro ordinario. Con queste regole non si aumenta l’occupazione e tanto meno quella dei giovani.
«I giovani sono sempre più rifiutati da un mercato del lavoro che offre poco o niente d’interessante per essi e l’offerta di lavoro preferisce gli anziani ai giovani, sia perché, per il buco demografico che dura da quarant’anni (dal 1975 crescite annue dimezzate a 500 mila), ne trova pochi sul mercato e ancora meno disposti a fare lavori umili e mal pagati, sia perché vecchi e anziani sono più favorevoli ad accettare paghe basse, diritti ridotti e orari lunghi».
«Da anni poi, una domanda fatta soprattutto di lavori umili e mal pagati incontra un’offerta prevalentemente di stranieri: servizi alla persona, colf e badanti, baristi e camerieri, mungitori e raccoglitori, sono questi i lavori che il paese più vecchio del mondo, con una produzione di beni e servizi tra le meno innovative del mondo, riesce a offrire. E poiché questi lavori “poveri” e mal pagati sono più accettati dagli stranieri che dagli italiani, ecco una vecchia caratteristica delle nostre statistiche sul lavoro, nota da anni agli esperti, ma non a tutti gli italiani, a cominciare dal leghista Salvini in giù che tuonano contro “gli stranieri che ci tolgono il pane”; la balla più grossa, da quando la domanda di lavoro è povera e mal pagata e quindi incontra soprattutto un’offerta straniera, che se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Altrimenti l’azienda Italia sarebbe già fallita, Inps compresa che già incassa quasi 10 miliardi l’anno da contributi di stranieri, senza contare dei settori che, per mancanza di braccia, avrebbero chiuso bottega, agricoltura, pastorizia, pesca, servizi alle famiglie, fonderie, industrie alimentari, pulizia delle città, ecc.».
Nei paesi industriali, la piena occupazione è compatibile con questi bassi tassi di crescita del Pil solo a due condizioni: una ricerca continua d’innovazione e qualità delle produzioni, e «una redistribuzione del lavoro con riduzione degli orari a tripla finalità, l’occupazione, la formazione continua e la qualità della vita».
Tra l’altro, negli ultimi venti anni nei paesi ad alta diseguaglianza, tra cui Usa, Gran Bretagna e Italia, quasi tutta la ricchezza prodotta è andata, invece che a ridurre anche gli orari, tutta a profitti e rendite al 10% della popolazione, mentre il resto, classe media inclusa, ha subito una forte perdita di potere d’acquisto.
Ridurre gli orari per ripartire il lavoro è il modo principale con cui i governi europei più avveduti hanno difeso l’occupazione. Su questo punto l’autore cita un numero della newsletter di www.nuovi-lavori.it (n. 123/2013) in cui si riportavano le esperienze europee di orari ridotti di lavoro (STW).
Governi, organizzazioni sindacali e padronali di alcuni paesi europei, hanno lavorato per ridurre la disoccupazione con interventi di ripartizione del lavoro le cui principali modalità sono state le seguenti:
– le Banche ore sono state lo strumento per abolire lo straordinario e flessibilizzare gli orari;
– i Contratti di solidarietà, con riduzione concordata dell’orario e del salario e parziale compensazione di quest’ultimo con intervento legislativo da parte dei governi;
– il Kurtzarbeit, orario corto di lavoro, tedesco, con contratti collettivi che mantengono i posti di lavoro con riduzione per tutti dell’orario e del salario, quest’ultimo parzialmente compensato con intervento del governo. Associato allo schema vi è un intervento formativo per quanti, avendo compiti modificati, ne necessitano. In Germania, il solo intervento alla Volkswagen permise di salvare 30 mila posti di lavoro;
– spesso alle riduzioni di orario si associano altre forme d’intervento, sul modello della nostra Cassa integrazione, associata all’obbligo di accettazione di diverso lavoro, il pensionamento anticipato e l’obbligo della formazione.
In conseguenza anche d’interventi di questo tipo, negli ultimi dieci anni in Europa è proseguito un lento trend di riduzione degli orari, passati dalle 40,5 ore del 1991 alle 37,5 del 2010 (dati Eurostat). In Italia si è invece premiato lo straordinario, si è aumentata l’età pensionabile, si sono incentivati al minimo possibile i contratti di solidarietà, ecc.
Mettendo in relazione la durata annua degli orari e il tasso di occupazione si vede che i paesi con orari più bassi hanno il più alto tasso di occupazione, mentre i paesi con orari più alti hanno il più basso tasso di occupazione.
In Italia, dove la durata del lavoro supera di 300 ore quella dei paesi del Nord Europa, questo costa quasi 3 milioni di occupati in meno nei soli lavoratori dipendenti (16 milioni).
L’esperienza europea di questi anni ci ha mostrato che è maturo il tempo per elaborare politiche occupazionali speciali adatte a periodi di crescita bassa e anche negativa.
La Germania è l’esempio più riuscito di queste nuove politiche per l’occupazione in periodi di bassa crescita, come la Kurzarbeit, orario corto, sostituzione degli straordinari con la “borsa delle ore”, contratti di solidarietà con orario ridotto, “difensivi” per evitare licenziamenti e “offensivi” per aumentare l’occupazione, indennità di disoccupazione legate al reimpiego obbligatorio, pensionamento progressivo, part time incentivato, politiche introdotte in Germania dal governo Schroeder e che hanno consentito al paese di difendere l’occupazione anche in periodi di crescita negativa come nel 2009 quando, con un Pil negativo del 5,5%, l’occupazione non calò.
«La crescita economica – conclude Nicola Cacace – va ricercata con tutti i mezzi possibili, ma non ci s’illuda che una ripresa dello zero virgola, possa produrre gli effetti occupazionali che servono all’Italia per tornare in Europa, da cui ci dividono 10 punti percentuali del tasso di occupazione, cioè 4 milioni di posti lavoro». Ma bisogna riprendere il cammino. L’autore ci ricorda che solamente operando su una riduzione del 10% degli orari ci sarebbero in Italia oltre un milione di occupati in più in dieci anni, oltre a migliorare la produttività e la qualità della vita.
Tratto dall’articolo “Lavoro e orari, riprendiamo il cammino” di Ferruccio Pelos, pubblicato sul sito www.nuovi-lavori.it