FINCHÉ LA LEGGE NON CI SEPARI. Intervista all’avvocato divorzista Massimiliano Fiorin

Giacomo Biffi, grande cardinale, definì Bologna “sazia e disperata”. L’espressione è stata quasi sempre fraintesa. La disperazione di Bologna era, appunto, quella derivata dalla sazietà: chi non ha bisogno di nulla, perché ha già tutto, non coltiva nemmeno la speranza. Oggi, Bologna ci appare disperata sebbene “a pancia vuota”.

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Dal punto di vista di avvocato che si occupa, anche, di diritto di famiglia, Massimiliano Fiorin, come vede la nostra città?
«Per rispondere a questo tipo di domande, di solito preferisco partire dalle statistiche, piuttosto che dalla mia esperienza professionale. Infatti, penso che la difficoltà maggiore – quando si parla delle crisi familiari – sia quella di convincere la gente a guardare in faccia alla realtà tutta intera. C’è bisogno di uno sguardo non parziale, che non si faccia fuorviare dalle ideologie, dai luoghi comuni e dagli slogan, come quello oggi tanto in voga sui “nuovi diritti”.
Ora, se guardiamo la cruda realtà dei dati Istat, a Bologna il tasso di separazioni e divorzi è tra i più alti in Italia, mentre quello dei nuovi matrimoni è tra i più bassi. Tra l’altro, siamo una delle città dove il “sorpasso” dei matrimoni civili rispetto a quelli religiosi è più accentuato, anche grazie alla frequenza dei casi in cui almeno uno degli sposi è straniero.
Meno matrimoni vuol dire, sempre secondo le statistiche, meno figli, e infatti se non fosse per l’immigrazione Bologna continuerebbe ad avere un indice di natalità tra i più bassi d’Italia, e quindi del mondo.
Di certo la speranza non è di casa, in una città dove non si fanno più figli, e dove i residenti sono sempre più anziani. Quindi possiamo senz’altro dire che Bologna continua a essere disperata, nel senso da lei indicato, anche se la crisi economica probabilmente la sta rendendo meno sazia.
Per quanto riguarda la mia esperienza di avvocato, devo invece riconoscere che il nostro Tribunale sta cercando di realizzare un approccio più attento e responsabile, quando si parla di affidamento dei figli, rispetto ad altre realtà giudiziarie italiane. Tuttavia, anche da noi quando si parla di matrimonio e di filiazione prevale pur sempre il primato dell’individualismo, e quindi è difficile aspettarsi una reale tutela delle ragioni della famiglia in quanto tale».

A 40 anni dal referendum sul divorzio, che divise l’Italia, i divorzi sono in calo. Il motivo, in realtà, è che sono in calo i matrimoni. Le coppie optano per la meno impegnativa convivenza. Il matrimonio, fra le coppie eterosessuali, perde di attrattiva. Contemporaneamente, però, gli omosessuali lottano per conquistare il diritto a sposarsi. Non le sembra paradossale la situazione?
«A ben vedere, gli omosessuali non lottano per potersi sposare nel senso tradizionale del termine. Mi pare invece che le loro associazioni stiano cercando di ottenere una specie di simulacro del matrimonio, che d’altronde è diventato prevalente anche tra le coppie di sesso diverso.
Mi riferisco al matrimonio per come esso viene “pensato” oggi, rispetto a come era stato concepito e praticato in tutte le civiltà umane, fin dalla notte dei tempi, prima della rivoluzione sessuale sviluppatasi negli ultimi cinquant’anni. In precedenza, infatti, il matrimonio era sempre stato considerato un’istituzione fondamentale e imprescindibile, che salvaguardava esigenze vitali per tutta la società, quali l’ordine dei rapporti interpersonali, la sicurezza di vita, l’educazione dei figli, la trasmissione della cultura dell’intera comunità.
Per la mentalità corrente, invece, ormai si tratta di qualcosa di superfluo per il vivere civile. Il matrimonio è diventato una specie di “contratto sentimentale”, a carattere privatissimo, dove esistono alcuni diritti e pochissimi doveri reciproci. Un suggello simbolico all’amore di coppia, mediante il quale si stipula una sorta di impegno a convivere precariamente, con la clausola sottintesa per cui quando il sentimento dovesse spegnersi, o l’interesse a convivere dovesse mutare, ognuno avrà diritto a recuperare immediatamente la sua libertà.
È normale che un matrimonio così concepito interessi sempre meno agli eterosessuali, anche perché in realtà molti di loro vorrebbero ancora, almeno all’inizio della propria avventura familiare, ricevere dalla legge una tutela maggiore per il loro impegno reciproco. Tuttavia non trovano alcuna sponda nel sistema giuridico, e anzi hanno ormai intuito – grazie a esperienze disastrose che colpiscono centinaia di migliaia di persone ogni anno – che il sistema delle separazioni e dei divorzi è profondamente distorto e iniquo. Allora, a maggior ragione, essi preferiscono non sposarsi nemmeno».

Dal suo punto di vista, ha ancora un significato l’esistenza della Sacra Rota?
«Certamente, anche se probabilmente il suo ruolo dovrebbe essere rafforzato, attraverso un rilancio del matrimonio canonico.
Sempre più colleghi dei fori ecclesiastici mi confermano la sensazione per cui buona parte dei matrimoni che oggigiorno si celebrano in chiesa, secondo il diritto canonico sarebbero a alto rischio di nullità. Le persone non hanno più la percezione del valore del matrimonio sacramentale, non capiscono il senso dell’indissolubilità. Forse vi è anche una responsabilità di chi dovrebbe preparare le coppie al matrimonio, specie quelle più giovani, e ci dovrebbe essere maggior coraggio nel dire qualche no.
D’altra parte, paradossalmente, ho già ricevuto più volte richieste di informazioni sulla possibilità di contrarre matrimonio solo in chiesa. Me lo chiedono cattolici praticanti che vorrebbero per se stessi, o talvolta per i loro figli, che il parroco non trascrivesse l’avvenuta celebrazione allo stato civile, in modo che gli sposi risultino uniti di fronte a Dio, ma ancora “single” per lo Stato.
Si tratta di persone spaventate da quello che potrebbe succedere, se in futuro l’altro coniuge decidesse di volersi separare, visto che le leggi civili non lasciano alcuna possibilità di evitarlo. Vorrebbero pertanto ottenere quello che nel diritto canonico si chiama matrimonio “di coscienza”, o “segreto”, in modo da sentirsi più tutelati e dare più valore al loro impegno reciproco.
In altri termini, vorrebbero un matrimonio che sia davvero indissolubile, o che quanto meno abbia alla base un impegno reciproco veramente forte, in grado di resistere alle sirene divorziste.
Per quanto ne so, ai nostri giorni il matrimonio di coscienza viene concesso assai raramente, e solo per motivazioni abbastanza spicciole. Tuttavia, il fatto che questa esigenza stia diffondendosi a mio avviso dovrebbe suggerire un ripensamento del regime concordatario. Sarebbe bene che agli sposi venisse lasciata più libertà di scegliere prima delle nozze su quello che sarà il regime del loro matrimonio, in relazione alla disponibilità a mantenere gli impegni che ciascun coniuge si sente di assumere».
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Tramite il proprio CAF, le Acli osservano il crescente fenomeno delle separazioni “fittizie”, orchestrate ad arte per ottenere agevolazioni fiscali maggiori rispetto a una famiglia “regolare”.
Come anche Lei osserva nel suo libro, questo la dice lunga sul deterioramento del rapporto famiglia-società-Stato nel nostro Paese. Potrebbe suggerire un rimedio politico, prima che fiscale, per arginare una simile deriva?
«Le separazioni fittizie non hanno alla base solo ragioni fiscali, che pure hanno un loro peso, visto che ormai risulta molto più conveniente essere celibi piuttosto che assumersi l’onere di una famiglia.
In realtà, ho notato che si sta diffondendo una generalizzata sfiducia nei confronti dello Stato, che non a torto è ritenuto troppo ostile alle ragioni della famiglia. Le persone comuni, nell’imminenza delle nozze proprie o dei propri figli, cominciano a rendersi conto che una futura separazione legale è un’eventualità troppo facile, visto che può essere ottenuta a semplice richiesta, senza bisogno di fornire motivazioni di alcun tipo. Nel contempo, la gente ha ben compreso che, in questa
malaugurata ipotesi, la disciplina civilistica è troppo squilibrata a favore del coniuge che si presume più debole, con il quale i figli con ogni probabilità rimarranno a convivere.
Anche per questi motivi, oggi sempre più persone evitano di sposarsi, oppure, come dicevo prima, se sono cattolici praticanti anelerebbero al matrimonio di coscienza.
Un rimedio politico per ora è impensabile, visto che i nostri governanti sembrano tuttora seguire la corrente del divorzio facile. Però in alcuni Stati americani un tentativo di rafforzare il matrimonio è già stato attuato, con l’introduzione del cosiddetto “covenant marriage”, o matrimonio-alleanza. È un modello che viene scelto liberamente dagli sposi prima delle nozze, e prevede limitazioni rispetto alla futura eventualità di separarsi, specie in caso di figli, al fine di evitare che si ricorra al divorzio troppo facilmente e senza motivi oggettivi».

Proprio in questi giorni pare che l’Italia sia, infine, giunta all’approvazione del cosiddetto “divorzio breve”. Può spiegarci di cosa si tratta e cosa, a suo avviso, comporterà questa piccola rivoluzione?
«È una proposta di legge della quale si discute da anni, e va nel senso di una ulteriore facilitazione – anzi, direi meglio, banalizzazione – del divorzio. La stessa direzione nella quale si sta procedendo da più di quarant’anni.
In effetti, i cosiddetti “tempi di ripensamento” che dovrebbero consistere nei tre anni di separazione legale che devono precedere il divorzio, sono diventati una vera e propria ipocrisia. Tant’è che le riconciliazioni sono sempre più rare. Ma questo avviene perché non c’è più nessuno, tra coloro che si occupano professionalmente di crisi familiari, dagli avvocati ai magistrati, ma anche tra i vari consulenti, mediatori e psicoterapeuti, che sia disposto a indicare alle coppie in crisi una possibile alternativa alla separazione. In questi casi, quelli che dovrebbero essere i medici sempre più spesso si trasformano in una componente della malattia».

Nel capitolo “Genitori espropriati”, descrive la penosa esperienza dei figli, costretti a recarsi in tribunale per rispondere alla innaturale domanda di un giudice se preferiscano rimanere a vivere con la mamma o con il papà, alternativa che non dovrebbe mai presentarsi a un ragazzo che ama entrambi i genitori in egual misura. Peraltro, i matrimoni che si sciolgono in quell’aula di tribunale, sempre più spesso, sono nati proprio attorno alla nascita di un figlio, non viceversa. Cosa comporta, a livello sociale e morale, sulla base della sua esperienza, questo sovvertimento?
«La mentalità individualista che domina il sistema induce a pensare che, per due coniugi in conflitto, la cessazione della convivenza non sia una parte del problema, bensì la soluzione. Anzi, una volta che la crisi esplode, da parte di avvocati, magistrati e consulenti vari si pensa che la separazione sia la prima condizione da realizzare, per poter gestire al meglio la situazione.
Questo criterio di intervento, invece di risolvere la conflittualità, molte volte la esaspera e comunque produce quasi sempre danni, specie per i figli. Non dobbiamo pensare alle situazioni, statisticamente piuttosto rare, in cui nella coppia si è verificata violenza domestica, oppure altri gravi soprusi. Guardiamo invece al fatto che in Italia più di quattro separazioni su cinque sono consensuali, e dunque non hanno alla base gravi ragioni oggettive.
Bisogna trovare il coraggio di ripensare il modo in cui vengono trattati questi casi ordinari – circa ottantamila all’anno – in cui ci si lascia solo per inseguire desideri individuali, senza che sia colpa di nessuno, solo perché “non ci si ama più”.
A questo proposito, ho notato che si sta verificando una vera e propria inversione del senso comune. Una volta, era scontato che fosse la felicità dei figli a essere necessaria per la felicità dei loro genitori. Adesso, anche se talvolta non lo si vuole riconoscere nemmeno a se stessi, si è portati a pensare che sia vero il contrario. Infatti ci si lascia – e a volte si espelle l’altro coniuge dalla casa familiare – nella convinzione che per i figli sia meglio crescere con un solo genitore che abbia ritrovato la propria felicità, piuttosto che in una famiglia dove “non ci si ama più”. Ma questo è un tremendo inganno, che produce devastazioni soprattutto sull’equilibrio psicofisico dei figli. Basterebbe invece un minimo di esperienza e di onestà intellettuale per capire che, al di là dell’egoismo degli adulti, il primo interesse dei bambini, rispetto alla crisi dei loro genitori, sarebbe semplicemente che questi non si separassero».

Lei scrive che le prime vittime dei divorzi sono appunto i figli, ma, in subordine, sono gli uomini, soprattutto, a pagare le spese della cultura “femminista a tutti i costi” che si è fatta strada dagli anni Settanta ad oggi. Peraltro, pare, sono quasi sempre le donne ad avviare la richiesta di separazione. Può chiarirci il suo pensiero in merito?
«È un argomento delicato, che espone all’accusa di maschilismo. Tuttavia è un dato di fatto che la separazione, ancor più che il divorzio, se, per gli uomini, fin dall’inizio può rivelarsi una tragedia, invece, per le donne, almeno in apparenza – benché si tratti quasi sempre di un altro inganno – può apparire conveniente. Se nella coppia in crisi ci sono figli piccoli, come avviene nella maggioranza dei casi, è fin troppo forte per le madri la tentazione di usarli come paravento, se non proprio come strumento di ritorsione nei confronti di quel compagno che ha deluso le loro attese.
La legge e la giurisprudenza infatti sono piuttosto squilibrate, perché tuttora risentono della mentalità che era corrente negli anni Settanta, quando fu introdotto il divorzio in Italia. Allora si pensava che sarebbe stato un rimedio per casi estremi, e quindi si è pensato a tutelare soprattutto il coniuge più debole, cioè quasi sempre la moglie. Si aveva, infatti, la fondata convinzione che avrebbero potuto verificarsi abusi da parte dei mariti, economicamente più forti in quanto capi famiglia.
Oggi invece la situazione si è completamente ribaltata, il divorzio viene praticato come un diritto anziché come un rimedio, e le donne hanno acquisito più indipendenza economica. Quindi gli abusi e gli squilibri stanno vistosamente cambiando di segno.
Tuttavia, e questo a mio avviso è fondamentale, non bisogna pensare che alla base di certe tragedie familiari ci siano solo le questioni economiche. Se le donne ricorrono più spesso alla separazione, dipende soprattutto da una radicale diversità di aspettative nei confronti della famiglia, che caratterizza i due sessi. La nostra società liquida tende a omologare tutto, ma la separazione e il divorzio, nonostante i tentativi di farli passare per fenomeni “normali”, se non proprio per conquiste di civiltà, continuano invece a rappresentare dei veri e propri drammi esistenziali, sia per le donne che per gli uomini.
Molte volte la conflittualità si moltiplica solo dopo la separazione, specie se ci sono figli piccoli, perché nessuno riesce ad arginare gli oceani di sofferenza e di rancori reciproci – e spesso le esplosioni di violenza – che derivano dal normale ménage di una separazione. Lo sforzo di costruire una “civiltà della separazione” è fallito, anche se non lo si vuole ammettere, per ragioni che sarebbero elementari, e cioè che sono il matrimonio e la famiglia a essere fattori di civiltà, e quindi la loro disgregazione non potrà mai esserlo».
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Ravvisa delle responsabilità nella sua categoria professionale?
«Gli avvocati per loro cultura si pongono come difensori dei diritti individuali. Quindi, molte volte, non riescono più nemmeno a percepire le ragioni della famiglia come soggetto plurale. Eppure, nella nostra Costituzione repubblicana – per altri versi ancora oggi considerata un baluardo di civiltà – c’è tuttora scritto che il primato dovrebbe essere riconosciuto alla famiglia fondata sul matrimonio.
L’unità familiare, e non la separazione, dovrebbe essere il valore fondante.
Purtroppo, gli avvocati hanno invece teso a conformarsi alla mentalità corrente, e quindi una volta che ricevono un mandato per una separazione o un divorzio, spesso iniziano a difendere a spada tratta gli interessi individuali del loro cliente, puntando alla soluzione per lui più vantaggiosa, senza alcun riguardo per gli altri interessi in gioco.
In questi casi, il diritto dell’altro coniuge a non essere aggredito nel patrimonio – e finanche nei beni essenziali, come la casa – a continuare a essere padre o madre, e soprattutto il diritto dei figli a continuare a godere della genitorialità di entrambi, viene a essere penalizzato.
Da quando è uscita la prima edizione del saggio che ho scritto sull’argomento, molti colleghi hanno teso a svalutare i miei rilievi, considerandoli come posizioni confessionali, anacronistiche, addirittura oscurantiste. Eppure, ho notato che più si va avanti negli anni, più la realtà giudiziaria sembra confermare la validità delle mie denunce. Tanto che hanno cominciato a essere adottati codici deontologici di settore, per gli avvocati familiaristi, che si propongono espressamente di reprimere i comportamenti troppo conflittuali e spregiudicati di certi colleghi.

Chiara Pazzaglia

L’intervista è stata pubblicata sul numero di giugno 2014 de “L’apricittà”, periodico delle Acli di Bologna.