Testimonianza di Armin Theophil Wegner
Armin Theophil Wegner nasce a Wuppertal, in Germania nel 1886. Allo scoppio della prima guerra mondiale, è inviato in Medio Oriente come membro del servizio sanitario tedesco nel quadro dell’alleanza militare tra la Germania e la Turchia. Nel corso della campagna mesopotamica del 1915-1916, Wegner è testimone oculare del genocidio del popolo armeno, la prima pulizia etnica del XX secolo. Nonostante i divieti, scatta centinaia di fotografie nei campi dei deportati,raccoglie lettere di supplica per le ambasciate, invia missive in Germania, scrive un diario, raccoglie appunti e riesce a far giungere a destinazione parte del materiale. Scoperta la sua attività clandestina, nel novembre del 1916 è espulso dalla Turchia e richiamato in Germania, dove cerca di diffondere le notizie sulla tragedia degli armeni. Organizza conferenze e dibattiti; pubblica le lettere inviate alla madre e agli amici dal deserto di Deir es Zor nel libro intitolato “La via senza ritorno”.
Nel 1919 invia una lettera aperta al Presidente degli Stati Uniti, nella quale denuncia lo sterminio della nazione armena e auspica una patria per i sopravissuti. Nel 1933, all’indomani della serrata contro gli ebrei, indirizza ad Adolf Hitler una lettera di protesta contro i comportamenti antiebraici e antiumani del regime. Viene arrestato dalla Gestapo, torturato e incarcerato. Liberato, dopo varie peregrinazioni, si rifugia in Italia, dove risiede fino alla morte, nel 1978. Dopo il 1965 il suo ruolo di testimone del genocidio armeno e di difensore dei diritti dei popoli, degli armeni e degli ebrei, è riconosciuto a livello internazionale. Nel 1968 viene insignito del titolo di “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem in Israele e dell’ordine di S. Gregorio, a Yerevan, capitale dell’Armenia, dove una strada porta il suo nome. Qui, nel 1996, le sue ceneri sono state tumulate nel “Muro della memoria”.
«Mi hanno raccontato che Gemal Pascià, il carnefice siriano, ha proibito, pena la morte, di scattare fotografie nei campi profughi. Io conservo le immagini di terrore e di accusa legate sotto la mia cintura… So di commettere in questo modo un atto di alto tradimento, e tuttavia la consapevolezza di aver contribuito per una piccola parte ad aiutare questi poveretti mi riempie di gioia più di qualsiasi cosa abbia fatto».
«E’ a nome della Nazione Armena che io mi appello a voi, come uno dei pochi europei che sia stato testimone oculare, fin dal suo inizio, dell’atroce distruzione del Popolo Armeno nei fertili campi dell’Anatolia, oso rivendicare il diritto di farvi il quadro delle scene di sofferenza e di terrore che si sono snodate davanti ai miei occhi per circa due anni, che non si potranno mai cancellare dalla mia memoria».
«… Io non accuso il popolo semplice di questo paese il cui animo è profondamente onesto, ma io credo che la casta di dominatori che lo guida non sarà mai capace, nel corso della storia, di renderlo felice, perché essa ha distrutto totalmente la nostra fiducia nelle loro capacità di incivilire e ha tolto alla Turchia, per sempre, il diritto all’auto-governo».
«I malati e i vecchi, nonché i bambini, cadevano lungo la strada per non più rialzarsi. Delle donne sul punto di partorire, erano obbligate sotto la minaccia delle baionette o della frusta d’andare avanti fino al momento del parto, poi venivano abbandonate sulla strada per morirvi d’emorragia. Le ragazze più attraenti venivano ripetutamente violentate. E quelle che potevano si suicidavano. Delle madri divenute folli gettavano i loro figli nel fiume per porre fine alla loro sofferenza. Centinaia di migliaia di donne e di bambini soccombevano a causa della fame, della sete…».
Testimonianza del Console italiano Giovanni Gorrini
«Dal 24 giugno non ho più dormito né mangiato. Ero preso da crisi di nervi e da nausea al tormento di dover assistere all’esecuzione di massa di quegli innocenti e inermi persone. Le crudeli cacce all’uomo, le centinaia di cadaveri sulle strade, le donne ed i bambini l’anima e quasi fanno perdere la ragione».
Testimonianza di Mesrop Minassian
«Nel 1914, quando ebbe inizio la prima guerra mondiale, i turchi vennero nel nostro villaggio, radunarono gli uomini armeni e li portarono via per arruolarli nell’esercito ottomano. Ma ci fu poi chi portò la notizia che, lungo la strada, li avevano uccisi tutti a colpi di accetta. Tra quegli uomini c’era anche mio padre».
Mesrop Minassian aveva 4 anni nel 1914. Nato a Samsun in Anatolia, è uno dei sopravvissuti al genocidio.
«Arrivarono e ci fecero uscire tutti dalle case. Ragazze, donne, bambini: ci portarono tutti nel deserto. Così, come un agnellino, mi hanno strappato da mia madre. Mi misero sottoterra, mi seppellirono lasciando fuori solo la testa e si allontanarono dicendo ‘Domani uccidiamo anche questo qui. Poi se andarono a scegliersi le ragazze più belle: quelle brutte le uccidevano o le gettavano nel fiume. Aprivano la pancia alle donne incinte, per vedere se il figlio era maschio o femmina. Alle ragazze vergini tagliavano i capezzoli, mentre alle donne tagliavano i seni e glieli mettevano sulle spalle. Io, dal buco dove ero interrato, vedevo tutto con i miei occhi».
A Mesrop capitò, dopo aver assistito alla tragedia di amici e parenti, di essere anche lui rapito: «Un turco che passava da quelle parti, sentì i miei lamenti. Venne, mi tirò fuori e mi portò a casa sua. Poi mi condusse dal mullah e mi fece circoncidere. Mi fecero stendere per strada, in mezzo al paese, in modo che chi passava vedesse che c’era un musulmano in più. Io rimasi con il mio padrone turco, badavo alle sue pecore. Mia madre era una donna molto bella ed era stata rapita da un altro turco. Il mio padrone un giorno mi lasciò andare da lei, perché la vedessi: arrotolavano le foglie del dolma. Mi vide e non disse niente, fece finta di nulla: intinse soltanto una foglia nell’acqua e me la diede perché la mangiassi… Il mio padrone mi utilizzava come servo. Ogni giorno mi diceva: ‘Infedele! Porta le pecore al pascolo e torna!’. Mi davano i compiti piu umili. Lui si accucciava per fare i suoi bisogni e poi mi diceva: ‘Infedele! Porta una pietra e puliscimi il sedere!’. Un giorno tardai e si infuriò, prese una grossa pietra e me la voleva tirare in testa, ma la moglie si mise in mezzo e io mi salvai».
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“E’ dovere di noi tutti effettuare nelle sue linee più ampie la realizzazione del nobile progetto di cancellare l’esistenza degli armeni che per secoli hanno costituito una barriera la progresso e alla civiltà dell’Impero… Siamo criticati e richiamati ad essere pietosi; questa semplificazione è una sorta di ingenuità. Per coloro che non cooperano con noi troveremo un posto che stringerà la fibra dei loro cuori delicati”. (Ministro dell’Interno Talaat, 18 novembre 1915).
“Il luogo di esilio di questa gente sediziosa è l’annientamento”. (Ministro dell’Interno Talaat, 1 dicembre 1915).
“Dopo aver fatto inchieste, è risultato che solo il 10 per cento degli armeni soggetti a deportazione generale ha raggiunto i luoghi a loro destinati; il resto è morto di cause naturali, come fame e malattie. Vi informiamo che stiamo lavorando per avere lo stesso risultato riguardo quelli ancora vivi, usando severe misure”. (Abdullahad Nouri, 10 gennaio 1916).
“Il numero settimanale dei morti durante gli ultimi giorni non era soddisfacente”. (Abdullahad Nouri Bey, 20 gennaio 1916).
“…Senza ascoltare nessuna delle loro ragioni, rimuoverli immediatamente, donne, bambini, chiunque essi siano, anche se sono incapaci di muoversi; e non lasciate che la gente li protegga, perché con la loro ignoranza mettono al primo posto guadagni materiali piuttosto che sentimenti patriottici e non riescono ad apprezzare la grande politica del governo. Perché, invece di misure indirette di sterminio usate in altri luoghi, come severità, furia (per portare avanti le deportazioni), difficoltà di viaggio, miseria, possono essere usate misure più dirette da voi, perciò lavorate con entusiasmo…” (Ministro dell’Interno Talaat, 9 marzo 1915).
“…La Jemiet (Assemblea) ha deciso di salvare la madrepatria dalle ambizioni di questa razza maledetta e di prendersi carico sulle proprie spalle patriottiche della macchia che oscura la storia ottomana. La Jemiet, incapace di dimenticare tutti i colpi e le vecchie amarezze, ha deciso di annientare tutti gli armeni viventi in Turchia, senza lasciarne vivo nemmeno uno e a questo riguardo è stato dato al governo ampia libertà d’azione…” (Comitato Unione e Progresso, 25 marzo 1915).
“Non è un segreto che il piano previsto consisteva nel distruggere la razza armena in quanto razza”. (Leslee Davis, Console USA, 24 luglio 1915).
“Non vi è alcun dubbio che questo crimine sia stato pianificato ed eseguito per ragioni politiche”. (Sir Winston Churchill) .
“Credo che la storia della razza umana non comprenda un episodio terrificante come questo. Il grande massacro e le persecuzioni del passato sembrano insignificanti se comparate a quella della razza armena in 1915”. (Henry Morghentau, ambasciatore Usa in Turchia).
“Il governo turco si è reso colpevole di un massacro la cui atrocità eguaglia e supera qualsiasi altro che la storia abbia mai registrato”. (George Cleménceau, Primo Ministro di Francia).
“Gli armeni furono sospettati e sorvegliati dovunque, essi subirono una vera strage, peggiore del massacro. … Fu una strage e carneficina d’innocenti, cosa inaudita, una pagina nera, con la violazione fragrante dei più sacrosanti diritti di umanità, di cristianità e di nazionalità… La questione armena non è morta. Anzi, essa risorge e si mantiene viva, perché la giustizia internazionale, anche se ritardi, ho fede che finirà per imporsi. Spero che l’auspicato avvenimento, o presto, o tardi, si realizzerà; e lo auguro di gran cuore; come spero e auguro che a ciò possa contribuire principalmente l’Italia”. (Giacomo Gorrini, Console d’Italia in Trebisonda).
“Il massacro degli armeni è considerato come il primo genocidio del XX secolo” (Sottocommissione Diritti Umani dell’ONU, 1973).
“Durante la Prima Guerra Mondiale i massacri perpetrati dalla Turchia costituiscono crimini riconosciuti dall’ONU come genocidio. La Turchia è obbligata a riconoscere tale genocidio e le sue conseguenze”. (Parlamento Europeo, 1987).