Parola di Dio
Gen 2,7-9; 3,1-7 La creazione dei progenitori e il loro peccato.
Sal 50 Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Rm 5,12-19 Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia.
Canto al Vangelo (Mt 4,4b) Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Mt 4,1-11 Gesù digiuna per quaranta giorni nel deserto ed è tentato.
Ingannevoli «domande»
Il racconto della Genesi non ha alcuna pretesa di scientificità secondo i canoni della moderna storiografia. Non intende narrare di un uomo chiamato Adamo e di una donna chiamata Eva e di come il loro rapporto con Dio sia decaduto da una condizione di originale fiducia. Attraverso il genere letterario del mito, il testo genesiaco cerca di documentare il fallimento «originario» che l’uomo di sempre può sperimentare nel cammino di assunzione della sua natura di creatura plasmata da Dio nella libertà. All’uomo divenuto «essere vivente» (Gen 2,7) e posto dal Signore Dio nell’incanto del giardino della vita, l’astuzia del «serpente» rivolge un interrogativo — il primo che la storia sacra attesta nel dialogo tra Dio e l’uomo — assai tendenzioso: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). Il problema di questa domanda, responsabile dell’attivazione della coscienza critica dell’uomo di fronte alla realtà, nasce da una certa ambiguità interpretativa. Infatti, questa celebre frase è sprovvista di quell’indicatore sintattico con cui la lingua ebraica è solita denotare una proposizione interrogativa: «Dunque Dio ha detto che non dovete mangiare di alcun albero del giardino!». Secondo questa possibile lettura, il serpente non intende affatto entrare in dialogo con l’uomo, ma sta cercando di insinuare nel suo cuore un’interpretazione avvelenata e velenosa di quel limite proposto – e non imposto – da Dio come luogo di relazione e rappresentato dall’albero della conoscenza del bene e del male.
Apparenti limitazioni
Nel capitolo 2 della Genesi, in realtà, Dio non aveva imposto all’uomo alcun impedimento, ma solo dettato una condizione affinché il dono della vita potesse essere accolto senza alcuna paura e vergogna, soprattutto senza scivolare nell’inganno e nell’arroganza dell’autosufficienza. Il serpente solleva il sospetto che le cose non siano così, ma che il «divieto» proposto da Dio abbia lo scopo di limitare la vita dell’uomo anziché educarla a crescere: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (3,4-5). La menzogna del serpente, potendo essere solo una manipolazione della parola (vera) di Dio, annuncia uno scenario di apertura dello sguardo che, di fatto, sarà l’esperienza a cui l’uomo va incontro. Purtroppo non si tratterà di una felice acquisizione, dal momento che l’improvvisa percezione della propria nudità altera la percezione di sé generando il bisogno di coprirsi: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,7).
La propagazione della morte
San Paolo, nella seconda lettura, interpreta correttamente il mito della Genesi, rileggendolo come un testo di accurata e universale antropologia: «… come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…» (Rm 5,12). La «propagazione» della morte dentro la vicenda umana di cui parla l’apostolo non è da intendersi come l’estensione virale di un decremento di umanità ereditato dai nostri progenitori. Ciò che la tradizione teologica ha definito «peccato originale» è piuttosto da intendersi come l’assunzione di una vita umana che, per come la conosciamo e sperimentiamo, non può che fare i conti con un’abissale distanza da Dio, causata non solo dalla differenza, ma soprattutto dalla diffidenza che si è stabilita tra la creatura e il suo Creatore.
Nel deserto
Nel deserto, luogo assunto dalla Scrittura come simbolo di castigo e di morte ma anche di intimità e di prova, il Verbo di Dio fatto carne decide di immergersi nelle profondità tenebrose del cuore umano, affrontando tutte le forme con cui la parola di vita seminata gratuitamente da Dio può essere fraintesa e annullata. Narrando le tentazioni di Gesù, l’evangelista Matteo sembra voler comporre un sapiente midrash in grado non tanto di elencare, ma di compendiare ogni forma di ambiguo ragionamento che l’uomo è capace di elaborare, a partire dalla realtà, nei confronti della vita come dono e di Dio come provvidenza. Il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto fa conoscere cosa dimora nel profondo del cuore: nell’intimo del Figlio di Dio, ma anche nell’intimo di ogni uomo e di ogni donna.
Le forme della tentazione
La prima tentazione è la tirannia delle soddisfazioni: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» (Mt 4,4); la seconda quella del successo facile e della rapida affermazione: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù» (4,6); l’ultima tentazione – forse la più subdola e pericolosa – è l’illusione del possesso come antidoto alla precarietà del vivere: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai» (4,9).
Il Signore Gesù non entra in dialogo, ma risponde sinteticamente a ciascuna di queste tentazioni, mostrando come non sia possibile – e nemmeno necessario – eliminare la voce del serpente, mentre è possibile – e necessario – saperla riconoscere e silenziare, per dare del «tu» soltanto all’unico Dio vivente. «Vattene, satana!», risponde secco il Signore Gesù all’ultima tentazione, citando la Scrittura: «Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto» (4,10).
La parola della promessa
Le parole pronunciate da Gesù nel deserto – dove ogni uomo sperimenta tutta la sua precarietà – trovano compimento nel mistero pasquale, nel quale ogni tentazione e ogni sospetto nei confronti della paternità di Dio vengono superati dalla manifestazione dell’amore più grande, quello capace di dare la vita per l’altro. La riflessione di Paolo, dopo aver messo a fuoco il dramma del peccato, si estende alla valutazione delle conseguenze dell’incarnazione per la guarigione della nostra umanità ferita dal peccato: «Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti» (Rm 5,15). Il cammino di prova inaugurato da Gesù Cristo attraverso il suo battesimo nella nostra umanità è dunque da contemplare e da accogliere non solo come un esempio utile per poter affrontare il combattimento spirituale conseguente al battesimo, ma anche come un sacramento di grazia versato sulla nostra libertà, a cui è possibile attingere gratuitamente e continuamente.