Anche le valigie dei nuovi migranti italiani, pur non essendo di cartone, sono piene come quelle del passato di bisogni, amarezze e sogni. In una parte di loro è certamente diffuso un elemento di novità: il sentirsi cittadini europei e del mondo, di un pianeta sempre più piccolo che oggi svela opportunità un tempo sconosciute. In questa sede si tralascia l’approfondimento delle cause dell’emigrazione contemporanea, che tuttavia sono evidenti anche a una lettura superficiale: il mal sviluppo; lo smantellamento di settori produttivi strategici; l’esosità fiscale dello Stato e il suo eccesso di burocratismo, che assieme alla piovra della corruzione allontano investimenti stranieri; la scarsità dei mezzi destinati alla scuola, alla ricerca scientifica e tecnologica, ai beni culturali e alla difesa dell’ambiente e del territorio; l’enormità del debito pubblico che lascia risorse irrisorie per la necessaria riconversione e riqualificazione economica e produttiva.
Alcuni di questi mali sono antichi, si sono accentuati negli anni Ottanta e le classi dirigenti (politiche e imprenditoriali) degli ultimi decenni, a parte qualche tentativo isolato, non hanno dimostrato complessivamente la lucidità di visione, il senso del bene comune e l’effettiva volontà di rimuoverli. Su questi nodi, la cui soluzione richiede comunque tempi medio-lunghi, si gioca davvero la credibilità di chi ha ottenuto nelle ultime elezioni europee molti consensi impegnandosi a un “cambio di passo”, come delle forze sociali più responsabili e di opposizioni che intendano essere costruttive e non meramente protestatarie e demagogiche.
Non è certamente casuale il fatto che il tema della “nuova emigrazione” italiana all’estero sia da qualche anno proposto con maggiore frequenza sulla stampa nazionale, anche se l’approccio non ha sempre un adeguato supporto di dati oggettivi. Anche la Consulta regionale emigrazione, nata nel 1974 e oggi denominata “Consulta emiliano romagnoli nel mondo”, ne ha fatto oggetto di una trattazione specifica nella sua seduta svoltasi a Bologna nel giugno scorso. Per motivi di spazio non si dà conto in modo analitico dei contributi dei vari relatori, ma si cerca di riassumere – forse con qualche approssimazione di cui si chiede scusa – alcuni dati e giudizi ampiamente condivisi.
Una recente ricerca che ha incrociato dati dell’Istat e dell’Aire (anagrafe degli italiani residenti all’estero) ha documentato che negli ultimi dieci anni è più che raddoppiato il numero degli italiani espatriati, fino a superare le centomila unità, con la tendenza a una crescita continua del fenomeno. I rientri risultano non più di un terzo delle partenze. È da sottolineare che secondo una valutazione unanime la nuova emigrazione è in termini reali almeno il doppio della cifra indicata, perché da sempre molti emigrati si iscrivono all’Aire solo qualche anno dopo la partenza dall’Italia per non dover rinunciare alla copertura previdenziale prima di un accettabile radicamento nel nuovo contesto.
Anche il dato generale dei cittadini italiani residenti all’estero (4.300.000) viene considerato molto inferiore a quello reale. I cittadini emiliano-romagnoli ufficialmente residenti all’estero sono circa 150 mila, molti meno di quelli provenienti da Calabria, Campania e da regioni particolarmente popolate come la Lombardia e la Sicilia. E tuttavia le informazioni in possesso dell’Aire sono soltanto in parte disponibili. Inoltre i contatti con gli emigrati diventano sempre più labili e da più parti si fa presente che – per la grande maggioranza – non si sa se lavorano o meno, che lavoro fanno e neanche l’evoluzione di titoli di studio e qualifiche nel corso degli anni.
Dopo il ventennio 1945-1965, in cui emigrarono sei milioni di italiani (circa trecentomila all’anno), il fenomeno si era ridotto nel decennio successivo, fino a restare per circa tre decenni di poche decine di migliaia all’anno. L’emigrazione attuale ha caratteristiche diverse da quelle del passato. Se la formula della “fuga dei cervelli” non è appropriata, sia perché non rappresenta l’intero fenomeno sia perché è irrispettosa della dignità di ogni persona umana (ciascuna delle quali ha un cuore e un cervello non identificabile nel titolo di studio posseduto), è comunque un fatto che fra i nuovi emigrati sono numerosi i laureati (fra cui non pochi ricercatori e studiosi) e i diplomati.
Negli ultimi anni prevale, secondo i dati dell’Aire, l’espatrio di giovani di origine settentrionale. Numerose anche le giovani donne, in percentuale vicina a quella degli uomini. La partenza e le esperienze vissute all’estero non rappresentano certamente fatti in sé negativi, tutt’altro. Ma purtroppo mancano spesso attrattive e condizioni per il ritorno. E dopo tre o quattro anni chi è partito difficilmente rientra. Con un danno economico, sociale, culturale e civile per la comunità di origine, che peraltro non è generalmente attrattiva per un’immigrazione giovanile qualificata dai Paesi in cui i nostri emigrati si dirigono. In sostanza, non vi è reversibilità e interscambio se non per esperienze di studio e di breve durata. Le analisi dei dati evidenziano anche una consistente emigrazione di laureandi, persone che non finiscono i loro studi e che vanno all’estero come “semilavorati”, per usare un termine sociologico freddo e meccanico.
Negli ultimi anni si sta accentuando anche il dato di giovani migranti che hanno solo la licenza media, un fatto che può prefigurare difficoltà di inserimento non precario nella nuova realtà. Per avere un quadro completo dei flussi emigratori in atto non vanno ignorate le partenze di “over 65”, e non solo di benestanti verso le spiagge “vip”, ma anche quelle di pensionati di modesta condizione che confidano –spesso illudendosi – di trovare (in Costa Rica o altrove) luoghi in cui poter vivere in modo abbastanza agiato con un migliaio di euro al mese o poco più. Quanto alle aree in cui si indirizzano i giovani migranti, oltre ai Paesi occidentali più sviluppati, risultano sempre più interessanti l’Asia (in particolare la Cina) e l’Australia.
Una richiesta sottolineata da studiosi dell’emigrazione italiana è la necessità che lo Stato curi molto di più l’anagrafe dei propri cittadini all’estero, creando quanto meno incentivi per l’iscrizione all’Aire, attualmente del tutto facoltativa. Oltretutto tale iscrizione consente l’elettorato attivo e passivo, anche se in occasione delle ultime elezioni europee ha votato meno dell’8% degli aventi diritto. Le motivazioni andrebbero peraltro studiate. “Uno Stato che non cura la propria anagrafe che Stato è?”. È stata una domanda di Maria Chiara Prodi (figlia di Franco, fratello di Romano), componente estero della Consulta emigrazione che vive a Parigi e ha ricordato che la Francia mantiene una relazione molto stretta con i propri emigrati (dai quali, fra l’altro, riceve 21 miliardi di euro di rimesse rispetto ai 7 dell’Italia), mentre il nostro paese non cerca con i propri emigrati un collegamento che, oltre che doveroso come espressione che definirei di “patriottismo civile”, potrebbe essere proficuo anche sul piano economico. In sostanza non c’è una politica nazionale dell’emigrazione e si è lasciato vuoto uno spazio in parte occupato dalla sensibilità e dalla volontà politica di un gruppo di Regioni che negli ultimi decenni si sono dotate di strumenti concreti di relazione e di iniziativa come le Consulte, il cui ruolo – per quanto significativo per alcuni aspetti – è inevitabilmente limitato. Come ACLI regionali, prima con il compianto Innocenzo Siggillino e dalla fine degli anni Novanta con il sottoscritto, siamo stati per unanime riconoscimento componente molto attiva della Consulta regionale, e non condividiamo le polemiche sostanzialmente infondate e pretestuose nei confronti dell’attuale presidenza né i disegni di ridimensionamento del ruolo e dell’autonomia della Consulta.
Relativamente alla nuova emigrazione, la Consulta non ha ovviamente nessun potere di contenimento e di inversione del fenomeno, ma è emersa anche nelle parole della presidente Silvia Bartolini una volontà positiva: quella di chiedere alle oltre cento associazioni emiliano-romagnole nel mondo di rendersi disponibili a costituire “una rete di informazione, di aiuto, di accompagnamento, di appoggio (ovviamente non un servizio strutturato)” per le persone che emigrano nei territori in cui operano queste associazioni. Cercare di “tenerseli stretti” è non solo un appello sentimentale, ma un impegno che può anche contribuire “a rinnovare lo stile, le scelte, i gruppi dirigenti di associazioni” che, pur coltivando le relazioni fra soci e la memoria storica, devono essere adeguate ai compiti del presente. Fra questi, oltre al sostegno a chi arriva e decide di restare, c’è anche quello di “occuparsi del rientro di chi vuole o deve rientrare”. Vorrei concludere con l’affermazione di un’esigenza che è anche un auspicio: è dovere e compito delle istituzioni e di tutte le associazioni e persone “di buona volontà” favorire in vario modo sui sentieri degli emigrati la formazione di nuove imprese all’estero e agevolare le condizioni per un rientro dignitoso e costruttivo dei nostri connazionali in grado di recare nuove opportunità che possano anche valorizzare le esperienze professionali vissute all’estero.
Pierantonio Zavatti